La disabilità nella Chiesa Cattolica
di avv. Cristina Arata
Un’effettiva riflessione sulla tematica è sostanzialmente iniziata negli anni settanta, con argomentazioni che oggi potremmo percepire quasi “ingenuamente distanti” dalla convinzione, ormai diffusa, che la disabilità è una condizione umana, che non preclude né una vita spirituale, né una fede religiosa, né una vita sociale, né una partecipazione alle varie e molteplici esperienze umane.
Va detto che il pensiero cristiano ha sempre riconosciuto un particolare valore spirituale al “prendersi cura” delle persone con disabilità. Questo approccio, tuttavia, si è rivelato in parte limitato e limitante, confinando spesso le persone fragili nel ruolo di “oggetto di cura”.
Oggi il rapporto tra fede e disabilità ha accolto nuovi interrogativi e considerazioni, in sostanza una nuova cultura volta a rendere ogni persona davvero protagonista all’interno della Chiesa: soggetto partecipativo e non solo oggetto di attenzioni dedicate.
Il codice di diritto canonico del 1917 prevedeva ancora che l’ordinazione sacerdotale non potesse essere ricevuta da chi aveva impedimenti fisici, dagli epilettici, dai dementi e dagli indemoniati.
Questa disposizione è stata abrogata nel codice del 1983, ma è di per sé indice del “pregiudizio storico-culturale” che in parte ancor oggi rischia di operare nella Chiesa e nella vita delle Parrocchie, come è stato anche di recente sottolineato dal gesuita Justin Glyn, ipovedente dalla nascita.
Il sacerdote ha evidenziato come pochi cattolici disabili siano coinvolti nella teologia della disabilità.
È per questo, a suo parere, che l’esperienza della disabilità non è entrata (se non negli ultimi decenni) a far parte dell’autocomprensione della Chiesa.
“Come è possibile, quindi, che la teologia possa parlare della disabilità, se le persone con disabilità non studiano teologia? e come può la Chiesa comprendere la disabilità se le persone con disabilità non entrano a pieno titolo nella Chiesa?”
La prassi ecclesiale, per il gesuita, si è mossa nel tempo su due approcci non del tutto corretti: l’uno impegnato nella cura delle persone con disabilità, l’altro nel considerare queste persone vittime innocenti, predestinate a soffrire a favore degli altri.
Queste convinzioni non collocano a pieno titolo nel tessuto sociale le persone fragili come membri attivi, pur nella loro differenza. Non ha alcun senso, avverte il religioso, considerare le persone con disabilità privilegiate o svantaggiate grazie al preteso peccato presente o assente.
Un imbarazzo antico quello che collega la malattia e la disabilità al peccato, che ascoltiamo anche dai discepoli nel testo evangelico.
Nel Vangelo di Giovanni Gesù incontra il cieco dalla nascita.
“Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”.
Tonino Urgesi sottolinea che “La disabilità non c’entra nulla con la volontà di Dio; è solo una condizione da vivere”, ed è compito di tutti dare la possibilità ai fragili di farlo con dignità, “realizzando una società con una nuova cultura che sappia rimettere al proprio centro i bisogni e le necessità di ogni essere umano.
Come si può fare dunque la volontà di Dio in questo mondo se non dando a chiunque dignità e possibilità di vivere la propria vita e i propri desideri?
Ecco forse ora siamo in grado di trovare una risposta a quel nostro cieco dalla nascita: noi dovremmo essere voce e vista per quel cieco, noi dovremmo togliere dalle periferie della città ogni persona con disabilità e ogni uomo, noi dovremmo riempire i vuoti dell’esistenza dell’altro che si relaziona con noi, ma non lo stiamo facendo” (cfr. Dialogo su disabilità e fede, 10 luglio 2020).
Non solo la disabilità non è né una punizione né una benedizione, ma va contestata anche la convinzione che l’unico accesso alla fede sia l’intelletto, e che quindi ci sia bisogno di un passaggio cognitivo, di un “quantum” intellettivo per vivere la fede e i sacramenti.
Già Papa Benedetto nell’enciclica “Lumen Fidei” aveva aspramente criticato un simile approccio, affermando chiaramente che la Chiesa ha errato nell’assegnare tutto questo potere ad un solo senso, appunto all’intelletto.
Alla fede e alla vita spirituale si accede per ogni via e senso, anche attraverso ciò che l’uomo ancora non comprende. La disabilità mentale, quindi, non può mai essere intesa come limite in sé.
Il ruolo delle persone di fede è, anzitutto, capire che nell’altro esiste un volto, una persona, che ha la stessa sete e la stessa nostalgia di Dio.
La dimensione del trascendente deve essere intesa come ulteriore (trascendente, appunto) rispetto alla capacità cognitiva. La relazione è certamente più un’esperienza che un concetto, tanto che la ragione può persino danneggiarla (ad es. quando giudichiamo gli altri e noi stessi in modo categorico, limitando o annullando la possibilità di accogliere o di essere accolti). Il senso della vita è un orizzonte ultimo che difficilmente può essere ricondotto entro i domini di ciò che immediatamente comprendiamo ed etichettiamo.
L’atto di fede non dipende, quindi, dalle capacità umane: è l’uomo a dipendere dalla grazia di Dio (cfr. R. Franchini, La vita spirituale nelle persone con disabilità …” cit.).
Il sacerdote Justin Glyn avverte che “se la Chiesa in termini teologici non sa parlare della disabilità è la teologia della Chiesa ad avere una disabilità.
Se la teologia non sa parlare di Dio comprendendo la disabilità, è la teologia ad essere disabile, a mostrare un’incapacità imbarazzante.
Abbiamo bisogno di un pensiero teologico forte sulla disabilità, che sappia accogliere le tante domande che affiorano, dando loro la dignità di un pensiero teologico.
Un cambiamento radicale che ci aiuterà anche nella vita delle comunità, nelle scelte pastorali.
La grazia di Dio riguarda il rapporto continuo di Dio con gli esseri umani, con tutti gli esseri umani, che ricevono lo spirito Santo dentro di sé e rispondono a Dio nel limite delle loro possibilità.
Nessuno è escluso, perché nessuno di noi è stato concepito per rimanere fuori.
Nell’ambito della Chiesa le persone non possono essere descritte per il loro limite, ma solo come portatrici della grazia di Dio”.
Il paradosso è ben spiegato nelle parole di San Paolo alla comunità di Corinto (1 Cor 1,27): “… quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti”.
“Dobbiamo quindi partire dal presupposto che i limiti, le debolezze e le fragilità personali non sono un ostacolo per Dio, che è in grado di raggiungere il cuore di tutti.
È la catechesi che deve farsi prossima, e quindi valorizzare l’uso del corpo e del movimento e le altre esperienze sensoriali a trovare un linguaggio massimamente inclusivo” (Suor Veronica Donatello, Responsabile del settore per la catechesi dei disabili dell’ufficio catechistico nazionale della CEI, intervento al Convegno “Vivere la fede è un diritto” in Toscana oggi.it 20 maggio 2022).
Come sottolineato dal Prof Giuseppe Morandi per l’Ufficio Catechistico nazionale “Se la Chiesa battezza il bambino senza chiedergli una prestazione di tipo personale, libera e volontaria, lo fa nella fede della sua famiglia della sua comunità.
Il fatto che una persona con disabilità ci appare (anche per non conoscenza della sua reale condizione) con limiti di comprensione, questo non è un motivo sufficiente per l’esclusione delle persone fragili dai sacramenti: un comportamento siffatto si porrebbe ancora una volta come un estremo marchio di rifiuto da parte della società e della stessa comunità ecclesiale.
I sacramenti sono al centro del mistero cristiano, viverli rimane un’esperienza necessaria per tutti”.
Non esiste, quindi, un noi e un loro, esiste solo un noi: le persone con disabilità fanno parte della Chiesa, ne devono essere presenze partecipi, e deve essere riconosciuta loro una ministerialità dei talenti.
In fondo esistono esempi nella Chiesa di santi, come Santa Margherita da Città di Castello, Santa Germaine Cousin, Beato Manuel Lozano Garrido, tutti affetti da pluridisabilità, a dimostrazione di una santità possibile al di fuori di una fallace idea di limite.
Anzi le persone con disabilità e le loro storie possono essere un aiuto nel narrare una diversa immagine dell’uomo, di tutti gli uomini, esaltando il valore di appartenere, piuttosto che solo quello di essere indipendenti.
O meglio potrebbero aiutare a rappresentare un diverso tipo di indipendenza, che si ottiene nella relazione con coloro che quotidianamente ci sono d’aiuto e si prendono cura di noi.
Non si è mai indipendenti da soli: viviamo in una comunità e quindi con gli altri, in una costante dimensione relazionale.
Siamo indipendenti nella dipendenza. (John Swinton, docente di teologia presso l’Università di Aberdeen – Scozia, 2011)
C’è, quindi, una ragione che fonda il diritto dovere dei fedeli con disabilità di ricevere e celebrare i sacramenti, ed è insita nello spirito stesso della liturgia, che è essenzialmente relazione e comunicazione tra Dio e il suo popolo. Le persone fragili oggi sono e restano protagoniste della loro vita spirituale e di fede, e nella Chiesa non sono né possono essere semplicemente qualcuno da aiutare o da assistere.
“Se anche le persone con disabilità non fossero in grado di attribuire a Dio l’esperienza che stanno vivendo, questa impossibilità ha davvero un peso?
Se lo avesse, dovremmo accettare il fatto che Dio entri in relazione con l’uomo solo quando l’uomo è in grado di attribuire a Lui la relazione stessa”. (cfr. R. Franchini, La vita spirituale nelle persone con disabilità…” cit.).
Ma Dio non ha bisogno di essere riconosciuto per entrare in relazione: Dio è trascendente e si fa carico della limitatezza dell’uomo. Il limite, anche laddove amplificato dalla disabilità grave e profonda, non può di per sé costituire un ostacolo alla relazione con Dio.
In occasione dell’ultima giornata internazionale delle persone con disabilità, Papa Francesco, nel denunciare la cultura dello scarto, ha affermato rivolgendosi alle persone fragili e alle loro famiglie che “la Chiesa vi ama, e ha bisogno di ognuno di voi per compiere la sua missione al servizio del Vangelo”.
Bisogna tuttavia prestare attenzione alle barriere culturali e comunicative.
Come afferma John Swinton “le comunità religiose potrebbero creare barriere legate alla natura delle forme di espressione […] assumere una base cognitiva per la spiritualità ed esigere una risposta di tipo intellettuale (insita in alcune formulazioni verbali) esclude le persone con disabilità, non perché sono meno spirituali, ma a causa del modo attraverso cui la spiritualità viene definita”.
Oggi nella Chiesa la pluridisabilità è intesa e vissuta come un fattore contingente, nascosta nel mistero dell’imperfezione di una creazione che attende con impazienza e travaglio di nascere alla libertà vera e piena di sé stessa.
Papa Francesco ci invita a passare dal perché al per chi: non si può smettere di chiedersi il perché di tante cose, di noi stessi e della realtà, e quindi lo stesso perché della disabilità. Ma si può dedicare lo stesso impegno anche al per chi della mia vita, nella condizione in cui sono. Per chi sono io?
Esiste per il Pontefice una legittimità dell’urlo umano nei confronti del dolore, testimoniata dall’esperienza biblica di Giobbe che grida la sua protesta contro il mistero del male e poi acquisisce la sicurezza che il Signore nella sua tenerezza gli renderà giustizia.
Esiste, quindi, un diritto della vittima alla protesta nei confronti del mistero del male, un diritto che Dio concede a chiunque, anzi che è lui stesso in fondo ad ispirare.
Come ha sottolineato lo scrittore britannico C.S. Lewis “La sofferenza richiama sempre la tensione, Dio sussurra nei nostri piaceri, parla nelle nostre coscienze ma grida nelle nostre sofferenze; il dolore è sul megafono per svegliare un mondo sordo dal problema della sofferenza”(cfr. Il problema della sofferenza – 1988).
È per questo che la ricerca spirituale sfocia con naturalezza nella disabilità. Gli interrogativi che animano l’inquietudine verso il trascendente provengono da esperienze limite, come la sofferenza e la morte, “spazi liminali in cui il presente e l’eterno si toccano e cristallizzano domande e risposte di significato” (William C. Gaventa, Nascosto in bella vista: spiritualità, disabilità intellettive e dello sviluppo, integrità, in Spiritualità e qualità di vita, rivista XI/2021 Opera Don Orione).
Il limite è una caratteristica intrinseca ed universale della condizione umana.
E la disabilità ha un forte potere rivelatore, smascherando la fragilità di molti miti: il potere, l’indipendenza, l’individualismo, la competizione.
L’evidenza empirica è che tutti dipendiamo in tutto, persino nel nostro diventare persona.
Noi siamo perché altri sono.
È la vulnerabilità che accomuna l’esperienza di tutti gli uomini, anche quella spirituale e di fede.
Estratto dell’articolo pubblicato sul numero speciale “Le persone con disabilità: la riforma tra progetto di vita e inclusione” dell’Associazione Avvocati per le Persone e le Famiglie